domenica 28 marzo 2010

Avatar e il futuro del cinema


Al botteghino non ci sono confronti: il film di J.Cameron, Avatar, ha avuto il più alto incasso (e successo) nella storia del cinema, battendo un record registrato dallo stesso regista nel 1997 con Titanic, che all’epoca guadagnò circa un miliardo e 843 milioni di dollari.

Il colossal in questione, costato la bellezza di 237 milioni di dollari, è in grossa parte fatto in 3D e presenta molte tecniche all’avanguardia.

Ci sono subito state alcune critiche, principalmente da parte di alcuni registi, che sentenziavano che uno stile di film così ipertecnologico fa perdere il senso dell’immagine e di una narrazione affine alla realtà, in favore di un cinema “delle macchine”.

Alcuni commenti su Avatar:


S.Spielberg, regista: Da questo momento chiunque voglia fare un film di fantascienza dovrà necessariamente confrontarsi con gli standard che Cameron ha raggiunto in Avatar


R.Faenza, regista: La certezza è una sola: il computer ha preso il sopravvento sulla macchina da presa, le immagini umane sono ormai superate da immagini virtuali. E’ il dominio del fantastico occupato militarmente con la forza del denaro più che con la creatività. E noi finiamo inevitabilmente per ritirarci nel comodo ruolo di spettatori passivi, stupefatti e inermi


P.Virzì, regista: Rispetto agli ometti blu disegnati con il computer, io continuo a trovare più emozionante un primo piano di Stefania Sandrelli o di Valerio Mastrandrea. Sia detto senza moralismo: è questione di gusti


Samuel L.Jackson, attore: Il cinema non è in crisi. E non ho niente contro il 3D. è ilfuturo del cinema. Ma non temo per il lavoro di noi attori. Ci sarà sempre bisogno di noi


Giancarlo De Cataldo, scrittore: Avatar conferma una legge del cinema americano: dietro a ogni grande successo c’è un intelligente connubio tra tradizione e modernità. E maggiore è la risonanza tra la storia e i sentimenti della gente, maggiore è il successo


E tu che ne pensi?

venerdì 19 marzo 2010

Invictus

Invictus, film del 2009 di Clint Eastwood, vede come protagonista un bravissimo M.Freeman nella parte di Nelson Mandela. Questo grande personaggio della storia del Sud Africa esce dal carcere, diventando presidente del suo stato (siamo negli anni ’90, appena dopo la fine dell’aparthied in questo stato africano molto distante da noi). Le difficoltà che il neopresidente si trova a affrontare sono tante: prima fra tutte la questione dell’uguaglianza tra bianchi e neri dopo un lungo periodo di discriminazioni. In vista dei mondiali di rugby, lo sport più seguito nel paese, Madiba, come viene affettuosamente chiamato, decide di puntare sulla squadra degli Springboks, con la sorpresa di tutti, dato che era la squadra-simbolo dell’apartheid.
Non vi rovino il finale, ma sappiamo tutti chi vinse i mondiali alla fine.
Basato sul romanzo di John Carlin "Playing the Enemy: Nelson Mandela and the Game That Made a Nation" , Eastwood fa un film classico, serio, ma sicuramente non il suo migliore.
Il regista cerca di conciliare alcuni generi diversi (biografia, fatti storici e sport), ma secondo me ci riesce fino a un certo punto. Con un inizio molto interessante, che si occupa di temi come l’uguaglianza, le discriminazioni e la povertà, il film scivola nella tematica sportiva, fino a diventare un film sul rugby. Mentre infatti Visconti fa una dilatatissima scena di ballo ne “Il Gattopardo” senza fare un film sul ballo, Eastwood perde di vista il concetto che il mondiale voleva esprimere, puntando troppo sul mostrare le partite, gli stadi gremiti e la gente tesa a ascoltare alle radio il cronista sportivo. Dal film infatti sembra quasi che la questione morale sia solo un contorno di quella “kermesse di rugby”.
Non ho amato molto nemmeno il personaggio di Mandela, verso cui c’è un rispetto fin troppo ossequioso, che sfiora più l’agiografia che il fatto storico.
In definitiva non è un brutto film, ma da Eastwood, dopo Million Dollar Baby, mi aspettavo molto di più.

Invictus

sabato 13 marzo 2010

Premi Oscar 2010: i vincitori

Miglior film:
The Hurt Locker

Miglior regia:
Kathryn Bigelow per The Hurt Locker

Miglior attore protagonista:
Jeff Bridges per Crazy Heart

Miglior attrice protagonista:
Sandra Bullock per The Blind Side

Miglior attore non protagonista:
Christoph Waltz per Bastardi senza gloria

Miglior attrice non protagonista:
Mo'Nique per Precious

Miglior sceneggiatura originale:
Marc Boal per The Hurt Locker

Miglior sceneggiatura non originale:
Geoffrey Fletcher per Precious

Miglior film d'animazione:
Up

Miglior film straniero:
El secreto de sus ojos (Argentina)

Miglior documentario:
The Cove

Miglior scenografia:
Rick Carter, Robert Stromberg e Kim Sinclair per Avatar

Miglior fotografia:
Mauro Fiore per Avatar

Migliori costumi:
Sandy Powell per The Young Victoria

Miglior montaggio:
Bob Murawski e Chris Innis per The Hurt Locker

Miglior trucco:
Barney Burman, Mindy Hall e Joel Harlow per Star Trek

Miglior colonna sonora:
Michael Giacchino per Up

Miglior canzone originale:
Ryan Bingham e T-Bone Burnett "The Weary Kind (theme from Crazy Heart)" per Crazy Heart

Miglior sonoro:
Paul N.J. Ottosson e Ray Beckett per The Hurt Locker

Miglior montaggio effetti sonori:
The Hurt Locker

Migliori effetti visivi:
Joe Letteri, Stephen Rosenbaum, Richard Baneham e Andrew R. Jones per Avatar

Tess

Tess

Un film di un po’ di tempo fa che mi ha fatto molto pensare è stato “Tess”, una pellicola del 1979. Dietro la macchina da presa c’è Roman Polanski, regista polacco di origini ebree che ha lavorato anche in Italia e che ha vinto il premio Oscar come miglior regista un paio di anni fa, con il toccante film “Il pianista”. Polanski stavolta invece ci racconta la storia di una donna, Tess, dall’omonimo romanzo di Thomas Hardy (1891), a cui è abbastanza fedele. Tess (Nastassja Kinski) è una contadina inglese dell’800, che va a lavorare come bracciante presso una fattoria. Lì il fattore, Alec (Leigh Lawson), si innamora di lei e la mette incinta. Così Tess fugge, per la vergogna, dall’invidia degli altri braccianti. Si rifugia a casa del padre. Il bambino nasce, ma dopo poco tempo muore e non viene seppellito in terra consacrata, poiché non era stato battezzato -il prete non aveva voluto battezzarlo perché frutto dell’amore extraconiugale del fattore-. Tess quindi lascia la casa del padre e trova lavoro in un altro posto. Lì un contadino, Angel Clare (Peter Firth), si innamora di lei, ricambiato. Celebrato il loro matrimonio, Tess gli confessa la sua precedente disavventura amorosa. Il marito, dispiaciuto e confuso, la lascia per andare a cercare fortuna in Brasile. Passato molto tempo, Tess incontra di nuovo Alec, che cerca di convincerla a sposarlo. Tess, dopo molte esitazioni, accetta credendo che Angel fosse morto. Ma questo ultimo ritorna dall’America e la situazione peggiora fino a terminare in tragedia…

Il film è una collaborazione franco-inglese e, a suo tempo, ebbe successo e piacque in parte anche ai critici. In esso si può notare la maestria del regista polacco nel descrivere un personaggio di spessore senza “farlo parlare troppo”. La Tess di Polanski è infatti silenziosa, schiva, sottomessa, ma quasi diabolica. Lo spettatore è spinto a vedere con distacco la protagonista durante le sue sventure, ma allo stesso tempo è sensibile alla sua storia, come se essa fosse solo una pedina nelle mani di qualcun altro, ovvero la ipocrita società vittoriana. Questa ultima la avrebbe etichettata come una “fallen woman”, una "donna caduta"(vedi letteratura francese dell’epoca); Polanski, e anche Hardy, intendono invece dimostrare l’innocenza di Tess, stuprata da un provincialotto e abbandonata dal marito, costretta solo dal caso ad improvvisarsi assassina. Essa è infatti rappresentata, tanto nel romanzo quanto nel film, come una lavoratrice, pronta a dire la verità, anche se scomoda, al marito. Si critica invece la religione cattolica, i cui praticanti vengono descritti come bigotti e ipocriti: il battesimo viene vietato a chi lo richiede, il matrimonio è visto soltanto come un “contratto” neanche tanto valido (Tess si sposa mentre è ancora sposata). Nel film inoltre si può notare l’ eleganza con cui il regista riesce a descrivere l’erotismo in tutta la vicenda. Polanski infatti non eccede mai nel mettere in scena i momenti più scabrosi, ma bensì lascia che lo spettatore intenda. Da alcuni però questa fisicità così poco accennata è stata vista come un eccesso di pudicizia da parte del regista. Premio Oscar alla scenografia, curatissima (vedi ultime scene a Stonehenge), fotografia, che ritrae benissimo la campagna inglese in cui si impongono sempre di più le macchine, e costumi, appropriati a ciascun personaggio. Golden globe come miglior film straniero. Brava Nastassja Kinski ed anche gli altri attori. Da vedere.

http://www.youtube.com/watch?v=xvGZ5XXPCSM

mercoledì 10 marzo 2010


Gosford Park

Un film degli ultimi anni che è passato un po’ inosservato, nel senso che non è molto noto tra le “masse” è di un regista americano, bravo ed affermato. Questo ultimo è Robert Altman ed il titolo della pellicola è “Gosford Park”. Ispirato ad un racconto di Aghata Christie, il film è ambientato in una villa della campagna inglese, da cui il nome il film, negli anni ’30 di questo secolo. Non c’è un vero protagonista, ma di sicuro il personaggio un po’ più importante è quello di Mary MacKitchen, la domestica che accompagna Lady Constance (Maggie Smith) a Gosford Park, la residenza del cugino dell’ anziana signora, Sir William McCordle(Michael Gambon). Questo ultimo, infatti, aveva organizzato una battuta di caccia al fagiano (riflesso impoverito della più nobile, ma vietata, caccia alla volpe) invitando, oltre alla cugina, tanti altri parenti ed amici. Si riunisce così una svariata serie di personaggi formata da giovani e rampanti nipoti in attesa di un ricco finanziamento, parenti e amici il cui unico scopo è quello di cercare di ottenere denaro dal vecchio e potente consanguineo. Non manca neanche l’americano, Ivor Novello (Jeremy Northam), che non esita a scontrarsi con le abitudini dell’alta nobiltà inglese. Improvvisamente il brusco Sir William, la sera dopo, viene ritrovato assassinato nella sua biblioteca. Addirittura, dopo lo spavento generale, i villeggianti si accorgono che egli è stato ammazzato due volte: prima avvelenato e poi accoltellato. L’increscioso fatto mette in agitazione tutta Gosford Park, determinando un gioco in cui i servi (che abitano al piano inferiore della villa e passano tutto il giorno a spettegolare) si ritrovano al pari dei padroni (che abitano –e si annoiano- al piano superiore). Ad aver commesso l’omicidio sarebbero potuti essere stati tutti i ventisei personaggi che ruotano intorno a Gosford Park, ognuno con un movente. Per questo tutti loro vengono fatti rimanere nella tenuta per un altro giorno. Il commissario Thomson, venuto da Londra, non riesce a risolvere niente per la sua inettitudine e “lascia liberi” tutti i villeggianti. Non tutti, anzi, praticamente nessuno si mostra o cerca di mostrarsi triste per la morte del defunto, tranne la serva Helsey (Emily Watson), che confessa il suo amore per lo scomparso davanti a tutti la sera prima che esso muoia. A questo punto interviene la serva Mary, che indaga e intuisce il colpevole. Il film si chiude con l’abbandono di Gosford Park da parte di tutti i villeggianti. Non svelerò il colpevole: non voglio rovinare il finale a chi volesse vedere il film.

Il regista riesce a rappresentare un buffissimo paradosso: mentre i nobili inglesi sono occupati a mantenere vive le proprie tradizioni e cercano limitatamente di risolvere il caso, presi dalla smania di annullare l'identità degli altri componenti della società, la servitù assume nome e grado dei loro datori di lavoro, sottraendo alla nobiltà, di sottecchi, il ruolo di protagonista. Un passaggio indolore dato lo stato di morte apparente in cui da tempo giace la nobiltà che comincia a esibire al suo interno enormi ed insanabili segni di debolezza minata dalla nuova borghesia legata solo ed esclusivamente al denaro. Non è certo casuale il fatto che la risoluzione dell'omicidio e l’indagine riguardo al duplice delitto, sia opera della giovane Mary, serva ed improvvisato detective. Essa è infatti una esemplare del terzo stato, pronta all’azione e disposta anche al “gossip”. Gosford Park è stato definito da alcuni critici un “quadro impressionista”, in quanto il regista riesce a dare vita, con alcune pennellate, a tanti e variegati tipi umani. Con una infinità di sguardi critici Robert Altman finisce con il donare a questa opera cinematografica una inaspettata coerenza e una graduale omogeneità narrativa. Uno sguardo collettivo, lucido e distaccato, su un momento di decadimento. Ottimi tutti gli attori (in special modo M. Smith nel ruolo della anziana inglese snob). Bellissima l’ambientazione e la ricostruzione storica e la fotografia è splendida. Oscar per la sceneggiatura (ricca di humour inglese), il regista (all’opera con una delle sue massime espressioni) ed all’ambientazione. 5 golden globe. Musica di Doyle OK. Da vedere.

venerdì 5 marzo 2010


immagine di prova